TERAMO – Dimani sera alle 21 e in replica venerdì alle 17 e alle 21, al Teatro Comunale di Teramo, va in scena il “Wordstar(s)” di Vitaliano Trevisan per la regia di Giuseppe Marini, con Ugo Pagliai e Paola Gassman. “Sebbene poco incoraggiata, quando non decisamente maltrattata – si legge nelle note di regia – la nostra drammaturgia contemporanea mostra, malgrado tutto, importanti segnali di vitalità da cui si stagliano delle punte avanzate di cui vale la pena occuparsi. Un plauso e un ringraziamento particolari, dunque, al Teatro Stabile del Veneto e al suo direttore per questa esemplare e significativa controtendenza. Wordstar(s) di Vitaliano Trevisan è, lo affermo subito e con imprudente faziosità, un testo importante, a suo modo, un classico. In primo luogo per la sua qualità meta-testuale e metadrammatrica, capace di fare del medium usato il proprio tema e la propria narrazione. Il linguaggio e la scrittura diventano, in modo autoriflessivo, materiale del racconto, la forma stessa diventa sostanza narrativa. Ulteriore motivo di originalità e fascinazione, Wordstar(s) è scritto senza punteggiatura e con gli “a capo” tipici delle strutture versali e funzionali alla proposta di una lingua artificiale, ricreata in provetta, che aspira a farsi distillato purissimo, partitura. L’artificio è tuttavia così abilmente condotto e sorvegliato da conservare al linguaggio il suo simulacro di quotidianità. A ribadire la centralità tematica della scrittura, insieme al titolo (“Word” oltre al suo significato in inglese – parola – è anche, nel linguaggio del computer, un programma di scrittura) lavora un sottotitolo, altrettanto suggestivo: “ritratto di scrittore come uomo vecchio” (mi è parso subito il titolo di un quadro di F. Bacon e questa forte suggestione non ha mancato di reclamare i suoi diritti e le sue urgenze in sede scenografica, nei costumi, nell’uso della luce e del colore, appunto, alla Bacon). Ma è la scelta dello scrittore a chiudere coerentemente il cerchio di questa profonda meditazione sulla scrittura. E quale altro scrittore se non Samulel Beckett, che ha dedicato (sacrificato) l’intera esistenza alla sua irriducibile ossessione per il linguaggio e che ha spinto la letteratura e il teatro al limite delle loro (im)possibilità espressive, portandole al collasso per usura. Lo scrittore che, partendo dal presupposto che l’immaginazione è morta e la vena creativa esaurita, corteggia l’idea della fine della letteratura e della parola che si stempera nel silenzio da cui trae origine e a cui vuol fare ritorno. Lo scrittore più fedele all’idea dell’arte come fallimento inevitabile (“essere artista è fallire – scriveva – così come nessun altro ha il coraggio di fallire” o ancora “nessuna capacità di esprimere…insieme all’obbligo di esprimere”). Tenendosi al riparo dalla cronistoria o dalla biografia teatralizzata, Wordstar(s) narra (con libertà immaginativa che ha consentito possibili e pertinenti pennellate bernhardiane nella composizione del ritratto) gli ultimi giorni – o forse ore – di vita del grande scrittore, colto nella sua quotidianità comicamente scandalosa. La vertigine del pensiero e il tormento creativo dell’artista si coniugano con la tragicomica goffaggine dell’uomo, letteralmente in mutande, e di un corpo, cervello compreso, che va in malora e che impedisce le più elementari attività quotidiane, come tagliarsi le unghie dei piedi. Al flusso monologante del protagonista fanno da contrappunto le due figure femminili di Suzanne e Billie – la moglie e l’amante – che nel loro chiacchiericcio post mortem, logorroico e delirante, sembrano proprio (e così le ho trattate registicamente) due creature beckettiane nel loro teatrino purgatoriale…così da avere sullo stesso palcoscenico lo scrittore e il suo teatro in un alternante doppio registro con cui, a mio avviso, respira il testo-spettacolo. Analogo trattamento, un po’ meno marcato, per la figura del giornalista – professore – biografo Knowson, che vagheggia fortune editoriali sulla vita di Samuel. Ringrazio ancora chi ha ritenuto di dover affidare a me la cura registica di questo atto di nascita. Nel farlo ha forse tenuto conto di quella sorta di primo amore per il gigante irlandese come nulla osta ad occuparsi di Wordstar(s), o, forse, per favorire un avvicinamento di due beckettiani incalliti, quali Trevisan e me…E grazie a Ugo Pagliai che ha immediatamente creduto nel progetto abbracciandolo col coraggio e la spericolatezza del grande artista della scena…anche se abbiamo immediatamente escluso di lavorare in maniera mimetica alla costruzione di questo ritratto, fare Beckett non era uno scherzo…guardatelo e ascoltatelo: una meraviglia”.
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