TERAMO – Con un Vangelo stretto tra le mani, circondato dagli agenti di polizia penitenziaria concentrati sull’impedire che si avvicinasse troppo al padre, Simone Santoleri è entrato nell’aula di Corte d’Assise poco prima delle 9.30. La terza udienza del processo che lo vede imputato assieme al padre Giuseppe dell’omicidio volontario aggravato e dell’occultamento del cadavere della madre Renata Rapposelli, è vissuta sulla novità della sua presenza. E anche l’organizzazione dei posti a sedere sui banchi delle parti l’ha subìta, al punto tale che il genitore è stato fatto accomodare dalla parte opposta, quella vicina al pubblico ministero, scambiando posizione con gli avvocati di parte civile. Tutta questa attenzione nel separare i due imputati non è dovuta soltanto alla confessione del padre che accusa il figlio del delitto della madre. C’è anche la recente lettera, attribuita a Simone, in cui Giuseppe verrebbe fatto oggetto di minacce. Un’altra missiva, questa volta indirizzata al tribunale, ha fatto ingresso al processo proprio in apertura di udienza: il presidente della Corte, Flavio Conciatori, l’ha fatta acquisire dal pubblico ministero Enrica Medori: il contenuto non è conosciuto ai giudici, ma potrebbe contenere rivendicazioni di innocenza e di estraneità al delitto, scritte sempre da Simone Santoleri.
Il quale ha assistito in silenzio al racconto che due assistenti sociali del Comune di Ancona hanno fatto dell’indole delle madre, della sua condizione di single indigente, che veniva aiutata dall’amministrazione con un contributo mensile o con buoni alimentari. Quella della condizione economica precaria è tasto sul quale l’accusa ha spinto a fondo: la pittrice scomparsa da Giulianova nell’ottobre 2017 dopo una lite in famiglia con ex marito e figlio e ritrovata cadavere nel Maceratese un mese dopo, si era arrangiata anche a fare l’autista di un minibus dei servizi dell’ex manicomio, prima di riuscire a ottenere, con la separazione, un assegno di mantenimento di 200 euro al mese. Simone Santoleri non ha mai rivolto lo sguardo alla sua sinistra, nella direzione dove il padre Giuseppe sedeva a fianco al suo legale, l’avvocato Alessandro Angelozzi. E non ha battuto ciglio nemmeno mentre sullo schermo allestito in aula sono state proiettate le immagini del luogo del ritrovamento del cadavere e di quanto restava del corpo della madre. E’ stato un vicebrigadiere dei carabinieri, in servizio anti sciacallaggio nella zone terremotate tra Tolentino e Pieve Torina, quel pomeriggio del 10 novembre, a raccontare del ritrovamento. Furono avvertiti da un muratore macedone, che aveva notato uno scheletro tra gli arbusti lungo la riva del fiume Chienti, nei pressi di Tolentino. I carabinieri isolarono la zona in attesa dell’arrivo dei colleghi della Compagnia di Tolentino per i rilievi e la rimozione della salma, che di identificabile come resto umano aveva soltanto un piede. “Qualcosa ci diceva – sono le parole del testimone – che quel corpo era stato buttato, nemmeno adagiato a terra”. Il processo si chiude e i due imputati vanno via, uno alla volta, prima Giuseppe, poi Simone. E solo stavolta questi si è voltato per seguire il padre uscire dall’aula, prima di risalire sul cellulare della penitenziaria che lo riporta al carcere di Lanciano, dove il parroco lo ha anche nominato responsabile della catechesi del penitenziario.