SANTA CRUZ (Bolivia) – di Goffredo Palmerini – componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo (Cram). Solo nel 1993 suor Alessandra Carosone, missionaria della Dottrina Cristiana, riuscì a rispondere all’insistente voce interiore che la chiamava in Bolivia, dove già da sette anni alcune sue consorelle operavano. Il desiderio le era scoppiato dentro nel 1985, quando all’Aquila – la città capoluogo d’Abruzzo dove lei è nata – aveva ascoltato dalla voce di padre Remo Prandini l’invito alla Congregazione ad aprire una missione in quel Paese. Vari motivi non le avevano consentito di partire con il primo gruppo in quella terra meravigliosa, dove il salesiano bresciano, in pochi anni d’apostolato aveva seminato in sperduto villaggio nella foresta amazzonica – Hardeman – dignità umana, istruzione, progresso civile e tanta fede, prima della sua tragica scomparsa a soli 44 anni d’età. Testimonianza esemplare ed intensa, quella di padre Remo, che stava man mano cambiando il volto di Hardeman, specie dopo la sua morte, attraverso l’opera delle Missionarie che ne avevano raccolto l’eredità, comprese tante vocazioni del luogo. Altre due missioni, intanto, le religiose avevano aperto nella città di Santa Cruz, dal momento del loro arrivo in Bolivia. Una casa d’accoglienza nel barrio Victoria, ed un’altra opera avviata nel ‘90 in una splendida villa in centro città, già dimora di Georges Suarez, detto “Testa di paglia” per via dei capelli chiari, noto narcotrafficante cruceño a quale era stata sequestrata dopo l’arresto e dalla Prefettura affidata per opere sociali proprio alle Missionarie. In questa struttura madre Alessandra cominciò la sua missione verso poveri ed emarginati. La incontro di domenica, il solo giorno per lei un po’ tranquillo, in questa magnifica villa con parco, piscina e muro di cinta. All’ingresso l’insegna “Hogar Maria Inmaculada”. Mentre giriamo nella casa – gli arredi firmati da noti stilisti – rimasta tal quale per precisa consegna d’inventario e dove nulla l’autorità consente di cambiare, madre Alessandra mi racconta come il boss avesse celato le attività criminose con una vita “normale”, tenendo persino alcuni cavalli in quell’isola dorata, e come alla polizia non fosse finora riuscito, nonostante le minuziose ricerche, di trovare il “tesoro” del criminale. Ma io non son venuto per ascoltare storie del genere. Voglio invece conoscere la storia di questa religiosa abruzzese, mite all’apparenza, di cui al contrario so già d’una determinazione e d’un vigore eccezionali. “Incominciai il mio lavoro apostolico – mi dice suor Alessandra – in questa città dove i raggi solari ti bruciano la pelle e i 40 gradi del mezzogiorno ti prostrano, togliendoti fame e sonno. Però, in compenso, gli occhi vivi di tanti bambini, la sofferenza di tanti anziani e l’anelito di tante mamme disperate per gli innumerevoli problemi economici e familiari mi facevano dimenticare le avversità della vita”. Finché un giorno una insegnante non l’invitò a visitare Palmasola, il carcere di Santa Cruz, per portare conforto alle tante persone castigate prima dalla società e poi da quella vita dannata. “Un’esperienza per me unica – continua suor Alessandra – una realtà inconcepibile, una povertà materiale e spirituale che mette paura. Centinaia di mani tese che chiedevano aiuto, il volto sofferente di tanti bambini che mi afferravano il vestito per avere un gesto d’affetto e tante altre scene mi tolsero il sonno per giorni, facendo dare alla mia vita una svolta inimmaginabile. Prima di quel fatto mai avrei pensato d’esser in grado di vivere una simile esperienza, tutti i giorni. Da quel momento cominciai a rubare un po’ di tempo alle mie giornate per dedicarlo a loro. Un via vai di persone che vedono morire la speranza fu lo sconvolgente impatto nell’entrare nel carcere di Palmasola”. La struttura “penitenziaria”, se così si può definire, costruita per 500 detenuti, ne ospita quasi quattromila in condizioni disumane. Una volta registrati, entrano in un mondo dove si perdono tutti i diritti. “ Mi piace raccontare questa mia esperienza di vita – aggiunge la religiosa – perché la sento come una missione straordinaria. Avvicinarsi a queste persone che desiderano prendere una nuova strada e vederle buttate come stracci vecchi aspettando che la “ingiustizia umana” possa un giorno toccare la loro porta, è una realtà dura da accettare. Un giorno chiesi il perché di tanta tristezza ad un giovane di 25 anni. Mi rispose che erano tre anni che stava in carcere, che ancora non riusciva a svegliarsi da quel sonno eterno. Stava ammanettato e seminudo, in una cella di tenebre. Mi rispose: ”Vivo con tre figli e non so che dar loro da mangiare, mia moglie me li ha lasciati come si lascia un sacco di patate e non l’ho più vista”. Come ci si può sentire tranquilli – continua la missionaria – entrando in un carcere dove convivono persone innocenti, ladruncoli e criminali, assassini, sequestratori, spacciatori? Dove si vedono camminare liberamente persone con coltelli, punte di ferro e pistole nascoste nella cintura? Dove drogati, alcolizzati, malati di Aids, tossicodipendenti si avvicinano per chiederti quel pizzico d’amore e di comprensione che da anni non ricevono?”. Già, perché Palmasola è un carcere particolare, dove trafficanti di droga e criminali danarosi si permettono ogni libertà, dal cibo alla sistemazione in alloggi decenti, con visite giornaliere di familiari ed amici. Mentre i poveri disgraziati vi marciscono senza speranza. Delle drammatiche condizioni all’interno di Palmasola ha lasciato in un libro (El carcel) una lucida testimonianza un italiano, Marco Marino Diodato, che vi è stato detenuto cinque anni e ne ha descritto lo squallore, il degrado e la corruzione che vi regna. Diodato, in Italia ex poliziotto dei corpi speciali e paracadutista, emigrato dall’Abruzzo in Bolivia, divenne ufficiale istruttore dell’esercito boliviano. Ben introdotto nel mondo politico, aveva sposato la nipote dell’ex Presidente boliviano Hugo Banzer Suarez. Arrestato nel ’99 e condannato a dieci anni per narcotraffico, nel 2004 si diede alla fuga da una clinica dov’era ricoverato per problemi cardiaci, eludendo la stretta sorveglianza. Ma la sua vicenda giudiziaria – che coinvolse persone di spicco della comunità italiana di Santa Cruz – dai contorni politici controversi, un complesso intrigo internazionale, è ancora tutta da chiarire. Dichiaratosi sempre innocente, tale è ritenuto dall’opinione pubblica boliviana che ha seguito il caso passo passo sui mezzi d’informazione. Dunque, tornando al carcere, ancor peggio si stava quando suor Alessandra vi entrò per la prima volta. Ma da quel lontano 1993 qualcosa cominciò ad illuminare la speranza. Dapprima per i bambini che le donne tenevano in cella e che condividevano una drammatica condizione di detenzione. La prima preoccupazione di suor Alessandra fu rivolta subito a loro, chiedendo alle autorità, poi ottenendo e quindi organizzando una scuola materna per i più piccoli, poi la primaria per i più grandi. Accompagnato da madre Alessandra anch’io sono entrato nel carcere di Palmasola. Non ho spazio ora per le mie impressioni, sarà per un’altra occasione, anche per raccontare l’incontro con l’unico detenuto italiano. Negli anni questa tenace missionaria è riuscita, con il credito che si è guadagnato all’interno delle istituzioni boliviane, e grazie agli aiuti giunti dall’Abruzzo e dall’Italia, a mettere in piedi nel carcere di Santa Cruz tutti i cicli di formazione scolastica, fino all’università. Vi studiano i figli dei reclusi, ma anche i detenuti, donne e uomini, coltivando una dignità nuova ed una speranza nel futuro, quando la reclusione avrà termine. Vi insegnano docenti esterni, ma anche – dice suor Alessandra – “detenuti ingegneri, professori e avvocati”. Poi, con legittimo orgoglio, aggiunge: “Quest’anno escono i primi 18 laureati in giurisprudenza dalla nostra sezione universitaria, con laurea regolarmente riconosciuta dallo stato”. Ma non è ancora tutto. La sua preoccupazione, dopo l’infanzia, fu rivolta alle donne detenute, investendo sul loro desiderio di cambiare, di sperare in un futuro per sé e per i propri figli. Soprattutto pensando per loro a laboratori di mestiere. Nel 1994 le venne in soccorso l’approvazione d’un progetto presentato dalla Congregazione alla Conferenza Episcopale Italiana, finanziato con i fondi dell’8 per mille. Il progetto prevedeva l’acquisto di macchinari ed attrezzature per un laboratorio di sartoria e ricamo. Tuttavia, diversi mesi erano passati dall’approvazione del progetto senza però che i numerosi tentativi di suor Alessandra sulle autorità boliviane portassero a far finanziare e realizzare i locali per il laboratorio, con il rischio di veder perso il contributo della Cei. Fu così che in autunno, andando a La Paz per tenere degli esercizi spirituali, suor Alessandra riuscì in un’incredibile quanto proditoria operazione, nel palazzo presidenziale. Ci vorrebbero molte pagine per descriverla in dettaglio, come me l’ha raccontata. Qui mi limito a riassumerla brevemente, perché non solo illustra l’indomito carattere di questa religiosa, come pure talvolta la fortuna assista gli audaci. Fatto gli è che la suora, con atteggiamento da turista un po’ svagata e digiuna della lingua, fa capire a gesti di voler dare un’occhiata al palazzo presidenziale. Vuoi per l’abito che per l’atteggiamento dimesso, supera il primo livello di sicurezza. Prosegue l’impresa, salendo al piano della residenza presidenziale, dove continua ad alimentare l’equivoco anche alla seconda barriera. Anzi, il servizio di sicurezza la munisce perfino d’un contrassegno di “visitatore” che le consenta di girare nel palazzo. E’ qui che la religiosa inizia a muoversi con perizia, sgusciando tra i posti di blocco della sicurezza fino ad arrivare alla residenza del Presidente della Repubblica. Vi s’infila, accolta da un’esclamazione. E’ la voce di Gonzales Sanchez de Losada – Capo di Stato dal 1993 al ’97 e poi dal 2002 al 2003, Goni per i boliviani – che le chiede: “Madrecita, de donde viene”. E la religiosa: “Signor Presidente, sono italiana, vengo da Santa Cruz dove lavoro nel carcere di Palmasola”. Ella espone dunque al Presidente la ragione che l’ha condotta fin lì, tutte le difficoltà incontrate con le autorità di Santa Cruz per realizzare i locali per il laboratorio, il rischio di perdere gli aiuti dall’Italia per l’acquisto delle attrezzature. Il Presidente si fa chiamare la Prefettura di Santa Cruz, al telefono si dice sorpreso di quanto sta accadendo per il laboratorio nel carcere. Congeda quindi suor Alessandra, invitandola a recarsi appena possibile agli uffici della Prefettura. Fatto sta che quando lei vi si reca, le porte si spalancano, i sorrisi si sprecano, le soluzioni subito si trovano. In un mese a Palmasola vengono realizzati i locali per il laboratorio, vi vengono montati gli arredi, le macchine da cucire e le altre attrezzature intanto acquistate con i fondi della Cei. A gennaio del ’95 la struttura s’inaugura. Da allora, molte donne vi si sono formate. Uscite dal carcere, quel mestiere è stato utile per una vita nuova. Anche molti detenuti hanno poi frequentato altre strutture per imparare un mestiere messe su dalla madrecita italiana che nel carcere gode d’una autorità morale indiscussa e di forte credibilità. La sua parola è un’assicurazione. Ormai l’autorità carceraria non fa obiezioni, avendone verificato la concretezza. Certo, Palmasola è sempre un carcere con molti e gravi problemi. Ma in questi anni è tanto cambiato da quell’inferno che suor Alessandra vide nel ‘93 quando vi entrò per la prima volta. Se non altro è tornata ad esistervi la speranza, grazie ad una coraggiosa e sorridente missionaria abruzzese.
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