TERAMO – Bisceglia non ha ucciso Adele Mazza, sono altri i colpevoli. Parla per oltre cinque ore l’avvocato Barbara Castiglione, che difende Romano Bisceglia dall’accusa di aver strangolato e poi fatto a pezzi la ex compagna. Per rendere credibile la sua tesi, l’avvocato Castiglione punta il dito sulle carenze delle indagini, che non hanno sottoposto alla giusta attenzione cosa abbia spinto Adele Mazza a lasciare in tutta fretta l’appartamento dove viveva a Villa Gesso. Luci accese in diverse stanze, tracce di una recente coabitazione con qualcuno, di vissuto attuale: «Come se la vittima sia stata fatta scendere di casa con una scusa per farvi ritorno poco dopo – ha detto il legale di Bisceglia – ma che poi è stata rapita, portata altrove e uccisa». Per replicare a chi fornisce una teoria diversa sulle ultime ore di Adele Mazza e soprattutto confutare quella che sarebbe la prova regina, ovvero il sangue dell’imputato su un pezzo di adesivo di una busta che conteneva parte del corpo della vittima, la difesa si affida alla demolizione del lavoro scientifico dei Ris di Roma. E per farlo usa esempi eclatanti, recenti e meno, come il delitto di via Poma («Non si sono accorti della presenza di tre tipologie diverse di codice genetico») o dell’omicidio Meredith («Qui la polizia ha sbagliato tutto sotto l’aspetto scientifico») o del caso di un barista inglese accusato di un omicidio in Toscana pur non essendo mai stato in Italia, sempre sulla base di un Dna sbagliato. Errori che confuterebbero anche la veridicità e l’attendibilità delle tracce di sangue di Adele nel bagno di casa Bisceglia, ritenuto il luogo dell’omicidio: «Imposibile ucciderla lì – ha detto l’avvocato Castiglione -perchè sul pavimento non c’era spazio per depezzarla e tantomeno nella vasca dove non c’è una superifice piana. Adele pesava come Romano, lui non avrebbe potuto sollevare un corpo del suo stesso peso». E se si fa riferimento al luogo dove i pezzi del cadavere sono stati gettai, la scarpata di via Franchi alla periferia di Teramo, Bisceglia non avrebbe dovuto fare tanta fatica: «La raccolta differenziata a Teramo è cominciata un mese dopo il delitto – ha detto – e c’erano ancora i cassonetti. Ammesso e non concesso che l’abbia uccisa lui, avrebbe potuto buttare i resti nei tre contenitori che erano proprio di fronte a casa e non portarli a 400 metri di distanza con il rischio che qualcuno lo vedesse». Quel qualcuno, la notte ritenuta quella del delitto, lo vide rincasare nel buio, all’1.30, ma per la difesa quel testimone come tanti altri sono inattendibili: «In questa vicenda, i testi hanno male, sentito poco ma parlato troppo. Qui si rischia di trovare un colpevole e non il colpevole di questo delitto». Dopo le brevi repliche di pm e parti civili, i giudici della Corte d’Assise (presidente Giovanni Cirillo, a latere Ileana Ramundo) hanno aggiornato l’udienza a lunedì prossimo, 23 aprile: sarà la volta della replica della difesa, poi camera di consiglio e sentenza.
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